Pasqualino Cinnirella, Boati dal profondo, The Writer, Marano Principato, 2018.
Recensione di Lorenzo Spurio
- 12 febbraio 2019
- Libri
- Michela Zanarella
Il poeta Pasqualino Cinnirella di Caltagirone (Catania) con all’attivo le pubblicazioni poetiche “Pieghe d’animo 1963-1977” (1978), “Fuochi sull’aia 1978-1985” (1987) e “Meditazione” (2001) è recentemente uscito con una nuova opera poetica, “Boati dal profondo”, per i tipi di The Writer Edizioni. Le liriche, tutte dotate in calce del riferimento preciso alla data della loro stesura, sono inframmezzate da commenti critici di diversa lunghezza di eminenti critici e studiosi di letteratura, tra i quali Nazario Pardini, Pasquale Balestriere e Maria Grazia Ferraris (solo per citarne alcuni), che si dedicano ad approfondire alcuni aspetti dell’arte poetica del Nostro.
Le tematiche profonde che legano le varie liriche qui contenute sono il ricordo (di quando, affranto dalla noia e rabdomante nel campo del padre, “[s’] insaccav[a] di sole alto”,13), l’amore, la comunione con l’ambiente campestre, il sacrificio del lavoro, le figure dei cari (soprattutto quella del padre, vero e proprio maestro di vita difatti scrive in “Passaggi” che lui “impartiva alla mia coscienza, intatta allora,/ il suo modo giusto di vivere da uomo”, 23) finanche le tematiche di carattere etico-civile ad abbracciare, in un ideale girotondo di pace, le esistenze derelitte di chi, vicino o all’altro capo del pianeta, “vive[…] piegato al grigio degli eventi” (17).
La poesia che apre il volume, dal titolo “Morale”, fa da esordio alla doppiezza insita e radicata nel mondo e all’ambivalenza della natura umana, vale a dire le disparità tra bene/male che sono lette in tale “gioco della vita” in maniera contrastiva eppure quali entità di per sé presenti in forma congiunta e ubiquitaria.
Le poesie più ricche e pregne di fascino sono quelle imbevute nel ricordo di un’età andata, prevalentemente atte a descrivere una società diversa in cui il nucleo familiare – con la vigorosa e centrale figura del padre – aveva un significato etico-morale così vivido che Cinnirella di certo ha fatto suo e incarnato con la generazione a lui successiva. Le liriche dedicate al padre si caratterizzano per una commistione di tono, tra fanciullesco e retorico, tra leggiadro e altisonante, in versi piuttosto lunghi atti a celebrare, mediante la vita operosa del genitore, la sua figura di uomo, padre, operaio della comunità tutta. “Con la schiena curva sulla vanga/ cantando ai muli all’aratro” (13). Versi, questi, che, pur dinanzi al fardello del duro lavoro nei campi, ci appaiono soavi e leggeri, innalzati da quel “canto” smaliziato, quel gorgo popolare di suoni e di leggiadria, sintomo di un’empatia netta al suo ambiente. Il locus ambientale, spesso accentuato nelle particolarità vegetative, diviene in alcune circostanze motivo di lode per l’incommensurato amore verso chi ha generato il visibile e l’invisibile: “Elevo piano le mie mani al sole/ e canto alto alla vita un inno,/ un salmo – che invento dal profondo” (19).
L’immagine del campo, in via di coltivazione o arato, è una sorta di costante nell’opera del Nostro che, in tal maniera, ci informa delle varie fasi di preparazione del terreno e dei tempi di raccolta, in un ciclo fecondo e ininterrotto che vede la nascita proseguire con la crescita e la maturazione sino all’avvizzimento della pianta per ritornare, nei mesi successivi, ad essere seme e madre di frutti. Simpatico il ricordo di Cinnirella ragazzino che, come una sorta di Puck campestre, scorazza per i campi che il genitore dopo ore di duro lavoro ha custodito affinché diano il meglio: “gli infastidivo l’opera per le corse/ sull’aia tra le gambe degli armenti” (13). In “Ho sognato fuochi sull’aia” ritorna una delle immagini archetipiche dell’infanzia per Cinnirella – l’aia, appunto – lo spazio di intersezione tra i due mondi, il campo (la dimensione estesa, la natura) e il focolare (la dimensione intima, la famiglia); qui leggiamo: “Anche mia madre si univa al nostro canto/ aperto nella valle dove una luna argentea/ leniva la paura, mai in noi sopita,/ per il nero delle ombre tra le siepi” (22). Ci sono, immancabilmente, in questa natura campestre, fascino e mistero. L’io lirico è affascinato da questo ambiente caldo nel quale è immerso ma, a sera, questa natura – pur coltivata e, dunque, ordinata, pulita e conoscibile – è in grado di incutere paura. È un timore che i fasci argentati della luna fa scemare, come l’unione della madre – altra figura resistente e calorosa – in quelle circostanze rituali dove la campagna viene celebrata e vissuta, tra canti, devozioni e sortilegi, tradizioni che si tramandano e che riscaldano il cuore. Quel passato è liricizzato da Cinnirella in versi esemplari che ben rimandano alla dolcezza di quei giorni, che ampliano il languore verso il già esperito e non più riafferabile: “Coglieremo nella quiete,/ […]/ grappoli di sogni appesi alla memoria/ tra pampini d’attesa” (29).
Cinnirella sottolinea con perizia gli elementi che alludono alla vita lavorativa del padre quale esempio di vera e pesante sopportazione, di sacrificio, di impegno gravoso finanche nemico della salute stessa dell’individuo: “[il] sudore caldo come sangue gli colava dalla fronte” (13).
Tra le liriche dedicate va senz’altro posta attenzione e il meritato tempo di lettura a “Ma a noi quasi tuoi figli” dedicata allo zio ipovedente che visse nella casa familiare con lui. Del mondo delle tenebre toccato al parente, Cinnirella parla con levità a trascrivere, negli occhi spenti dello zio, un mondo di efficaci e vigorosi colori, finanche con le loro variazioni di tono e gradazioni, dategli per influsso dall’amore circolante in quella casa e tra i suoi abitatori: “Con noi nella luce,/ incuranti del dono a Te negato,/ il tuo giorno è continua notte,/ che mai accenna a schiarite d’albe/ o luci di lanterna nella sera./ Ma a noi quasi tuoi figli,/ educati alle tue oscurità,/ è inavvertito tedio il tuo male/ […]/ Coi nostri occhi… hai quasi visto l’amore” (15).
Si ravvisano criticità e grigiore nelle poesie di Cinnirella, soprattutto in quelle in cui parla di un presente nel quale per certi aspetti trova difficoltà ad abitare, tanto diverso e alienante rispetto a quel passato vivido e animato nella campagna siciliana. Affacciandosi al “davanzale della vita” (26; espressione che risulta prevalere nel corso del volume) l’autore affronta le tematiche assai novecentesche (diremmo, addirittura moraviane) della noia (“alienarmi/ dalla noia del giorno sempre uguale”, 13) a partire da un sentimento di mestizia che non è vera perdizione ma di uno scoramento, di uno smagamento o rottura delle illusioni: “tira forte dalle imposte, ancora sempre aperte/ un vento odioso di malinconia… e sento freddo” (26). Ed è questa l’età delle “dissonanze di vita” (28) e del “vuoto di certezze” (37) vale a dire il momento della quiete e della riflessione, dell’ampliamento investigativo, nel quale l’autore, col suo carico di esperienza, è in grado di raffrontare fasi diverse e successive del suo percorso esistenziale.
Ogni uomo del suo tempo non può esimersi dal raffrontarsi col mondo di fuori, nelle sue perplessità e nelle debolezze. Di occuparsi, cioè, e di far suoi i temi della collettività, del benessere condiviso, di andare ad argomentare i momenti di resa dell’umanità dinanzi alle aberrazioni, le indignazioni profonde della civiltà, l’impoverimento di ogni ordine, la brutalità di ciò che accade vicino a noi prendendo parte attiva nel recriminare e nel partecipare a un dibattito fattivo in merito a questioni d’interesse condiviso dall’intera razza umana. In tale contesto si iscrive la lirica “Palermo 23 maggio 1992” alla quale segue una dedica che chiarisce il motivo della data presente nel titolo ovvero “In morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, vittime dei crimini mafiosi quale ritorsione nei confronti del pool antimafia che negli anni ’90 aveva dato una seria caccia ai malavitosi siciliani fautori di spargimenti di sangue. Cinnirella, da buon siciliano (ma direi da buon italiano) non può esimersi di esprimere un suo commento, di creare sue immagini, di dedicare parole a quanto di umanamente tragico accadde nella Conca d’oro, nel Palermitano. Nel testo, pervaso da immagini di tritolo e distruzione, si parla della “fragile carne/ frantumata, intrisa nella lamina contorta” (32) con un linguaggio espressivo che è disarmante e al contempo dolente. I toni del componimento non intendono far sì che esso diventi un vero lamento, semmai un’ode di dolore che, nell’explicit, richiama a una rivalsa in termini ecumenici: nella speranza e nella pace. Così com’è nella bellezza incontaminata del paesaggio siciliano (ben evidenziato nell’immagine in copertina dove ‘A muntagna, l’Etna, campeggia di notte in un momento in cui ha iniziato la sua attività esplosiva e fumosa), Cinnirella, nella poesia dedicata ai magistrati siciliani uccisi (a far seguito alle morte di Rosario Livatino “il magistrato-bambino” di Agrigento e al Giudice Rocco Chinnici, solo per citare altri casi molto noti) propone un risollevamento felice per la Sicilia e per quelle terre martoriate che non è mero finale buonista e conciliatorio bensì approfondimento di coscienza per una rinata solidarizzazione e denuncia del male: “Rifioriranno solo petali neri di fiori intonati/ alla moda di quei lunghi scialli/ delle nostre madri ancora come sempre addolorate./A latere degli steli, come in un angolo,/ in silenzio per lo strazio,/ il cuore del sicano… è pietra millenaria” (33).
L’immagine di copertina che, nelle fumate del vulcano preannuncia l’inizio o l’intensificarsi dell’attività eruttiva, diviene per Cinnirella – nel significato di quei “boati” (terminologia che riaffiora nella sua concretezza sonora nella silloge) – metafora della sua stessa esistenza qui ripercorsa e narrata nel corso della silloge sino all’esperimento di definizione, in chiave sinottica, quale “favola di ieri” (42) alla quale, pertanto, riconosce un’età giocosa e di gaudio che ha avuto il suo epilogo – crediamo – nell’età della completa maturità. Ciò che segue la favola, però, non è propriamente e in maniera contrastiva una anti-favola (una storia truce e sofferente), semmai una non-favola, che equivale all’appropriazione dell’ordinario, della domesticità e del rituale che spesso – come già sottolineato – è spazio monotono e pregno di grigiori. Sono proprio queste le circostanze ambientali, il contesto, dal quale partoriscono riflessioni e considerazioni sul vissuto, momenti nel quale il Poeta dà vita alla sua creatività densa di appigli sentimentali tracciando sulla carta ciò che, felicemente e con rispetto, anche noi lettori possiamo introiettare. Se l’elisir di lunga (o infinita) vita è roba da fiabe, Cinnirella si mostra per ciò che è, ovvero un uomo di carne con il suo bagaglio di storia, le sue debolezze e i suoi timori (tanto personali, quanto di uomo che vive il suo tempo) che lo portano a considerazioni sagge sull’assorbimento totale di ciò che resta affinché esso venga vissuto al massimo delle possibilità: “-Rivivere- il giorno che mi resta/ come un tempo, come fanciullo/ che guarda l’orizzonte ad oriente/ e sorride… al suo domani” (52).
L’unica soluzione possibile sembrerebbe allora quella di saper trovare in se stessi la tranquillità tale che consenta di custodire e alimentare quel dialogo – che dovrebbe esser costante e spesso, invece, s’interrompe – con il proprio fanciullino. Con quella parte di sé in qualche modo trapassata, eppure salvifica e necessaria nei giorni della maturità ed oltre, ovvero nella “Senilità”, alla quale dedica una poesia dove il “florido passato” (60) ha lasciato irrimediabilmente il posto “[al]le movenze più lente delle mani” (60). Ed è così che s’apprezza quell’anticipo di crepuscolo che Cinnirella intravede e al contempo allontana da sé proprio con l’atto pratico della poesia, che è una sorta di esorcismo, col quale serra questa nuova opera: “Un uomo solo rimane/ tardo nei passi incedere/ a dipanare il dubbio dell’esistere/ […]/ nell’aurora grigia del domani/ […] [tra] solenni verdetti [s’] insinua la memoria” (63).