“Pietre” ovvero la poesia civile di Giovanni Di Lena
I versi convincenti e ruvidi di un autore che non si sottrae alle sfide della Storia
- 02 novembre 2019
- Libri
- Mario Sicolo
Sassosa. Puntuta. Ruvida.
La poesia di Giovanni Di Lena è qualcosa di altro. Straniante. È il colpo di maglio che riecheggia nella fabbrica. Il solco dell'aratro che scava la zolla. La spola che sibila in quel laboratorio tessile dimenticato.
Non è un caso che si intitoli "Pietre" l'ultima silloge di lirici componimenti firmata dall'autore originario di Pisticci e pubblicata da EditricErmes. La sua è poesia civile, che, se possibile, va oltre i pur altissimi esempi di Carlo Levi e Rocco Scotellaro, di un certo Albino Pierro e Leonardo Sinisgalli. Perché il poeta non solo accetta la sfida della Storia, ma vi si tuffa agonistico di tra le pieghe delle vicende dell'umanità, specie degli ultimi e dei più fragili, di cui sente di far parte honoris causa.
Egli non solo affronta con la corazza dell'etica le storture del mondo, ma vi pugna contro quasi fosse l'ultimo crociato della giustizia sociale e della verità del cuore.
E la Lucania, la sua Lucania, non è luogo d'anima buono per oniriche divagazioni, ma è terra ferita (forse mortalmente?) da vergogne e contraddizioni, nefandezze e iniquità.
Così, Di Lena scolpisce col fuoco della passione nel bronzo del tempo parole che sono un monito assordante contro chi queste delittuose sperequazioni perpetra in nome del profitto a tutti costi, fosse pure la morte di un lavoratore.
Allora, in controluce fra le terzine dolenti vedi affacciarsi personaggi e campi, uomini e contrade, ricordi e macerie che chiedono che venga dilacerato il velo della menzogna.
E fa male percepire che, nel breve e segnante torno di queste poesie, il Nostro faccia trasparire un velo di malinconia sulla tellurica rabbia iniziale. "Di che meravigliarsi/se l'ignoranza dilaga/e la società si frantuma?", si chiede, infatti, attonito e sconfitto.
Ma, ci chiediamo noi lettori, può un uomo, che verga pagine di sudore e sangue da trent'anni (la sua prima raccolta è dell'89, "Un giorno di libertà", edito la Vallisa), cedere alla violenza cieca della contemporaneità? Perché fa paura quel che ci attende, non c’è ombra di dubbio.
Il domani a tinte fosche sarà illuminato dalle parole di luce di questo bambino che imparò sì la rinuncia, ma non ha mai smesso di praticare la dignità?
Noi crediamo fermamente di sì, dacché questa, la dignità, resta una forza interiore viscerale, che è in grado di sovvertire i pur tracotanti rapporti di forza e potere che ci schiacciano, capovolgendoli eroica.
Anche e soprattutto con la possa di un verso poetico..