"Con un piede nella fossa"
- 26 novembre 2018
“Con un piede nella fossa”, è uno di quei libri che si legge davvero tutto d’un fiato.
Vuoi perché il lavoro attento, puntuale e certosino di Stefano De Carolis, di professione sottufficiale dei carabinieri ma anche grande appassionato di storia, ti prende dalla prima pagina (anzi, già dalla prefazione, curata dal procuratore di Bari, Giuseppe Volpe) all’ultima.
Profuma di baresità e non solo e quindi, se vogliamo, della nostra identità.
Racconta e testimonia, attraverso una lettura di documenti (4mila quelli consultati, e c’è anche il primo pizzino della storia della malavita barese, datato 1901), atti giudiziari, carte dei processi, fotografie, perizie, testimonianze, che la criminalità di capoluogo pugliese e provincia erano spietatissime e cruentissime già da metà ‘800.
E, in questo viaggio appassionante che va dal 1891 al 1914, si parte da una constatazione: la malavita barese discende dalla camorra napoletana e campana.
“Il libro nasce – è stato il principio dell’autore, intervistato dalla giornalistaViviana Minervini e dialogando anche con Ettore Cardinali, sostituto procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia, tutto nell'ambito del "Bibook" - da una mia curiosità e dall’aver visto una fotografia a Milano che raffigurava il Castello Svevo e titolo di questa foto era "Processo alla malavita barese". Ho iniziato a lavorarci nel 2012 e non è stato un lavoro semplice. Perché il 1891? Perché è stato celebrato il primo maxiprocesso al mondo, che fu seguito da 70 testate giornalistiche. Gli imputati erano 179, tutti della malavita barese, il processo è durato 59 giorni e sono stati tutti condannati”.
E la cosa da notare è che chi è andato dietro le sbarre si è scontato tutti gli anni da pena, che all’epoca con il Codice Zanardelli – ha evidenziato Cardinali – non erano distanti dalle nostre, seppur i processi erano diversi (mancava, per esempio, la possibilità di chiedere il rito abbreviato). E nella sentenza, inoltre, c’erano già gli impianti del 416bis, introdotto però quasi un secolo dopo.
Già, ma come si arriva al maxiprocesso? “Si era diffusa l’idea – ha spiegato De Carolis – grazie a un collaboratore di giustizia, che la camorra non era soltanto a Napoli, ma si era spostata più a Sud, a Bari, dove diventa una cancrena grazie alle affiliazioni in carcere, che all’epoca era il Castello Svevo. Fondamentale è stata anche l’interrogazione parlamentare di un deputato che ha permesso di far smuovere le acque ed effettuare un numero importante di arresti”.
Nel carcere di Bari è esistita la più sfacciata e vergognosa Camorra, con le regole che venivamo imposte dagli stessi detenuti, così come le pene per chi non le rispettava (una di queste, ha ricordato il procuratore, era lo sfregio sul viso, chiaro simbolo di non aver rispettato le regole). Ma ci sono anche altri aspetti: i camorristi baresi sapevano leggere e scrivere, sapevano far di conto e avevano un lavoro, portavano il camuffo al collo, si facevano tatuaggi ed erano crudelissimi.
Anche perché, grazie alle lezioni dietro le sbarre, sapevano usare benissimo il coltello. E uno di questi era la "Mummara”, putignanese, a serra manico con molla resistente, che veniva infilato nella tempia della vittima.
E il coltello aveva un vantaggio, perché era uno strumento con il quale difficilmente veniva colpita gente innocente. Poi, purtroppo, sono arrivate le pistole, le armi da fuoco, e anche gli innocenti hanno perso la vita. E a Bitonto, purtroppo, quasi un anno fa, con l’omicidio di Anna Rosa Tarantino, abbiamo capito cosa voglia significare. In tutta la sua crudeltà.
E poi c’è il primo pizzino, datato 1901. La sua storia è da brividi. Apparteneva a Mario Savino, potentissimo boss dell’epoca, e che, “a causa” della puntigliosa perizia del dottor Michele Introna su un suo tentativo di ammazzare un pentito, ha dovuto passare diversi anni di carcere, anche più di quelli inizialmente previsti.
Savino, ovviamente, ha covato vendetta e, tornato in libertà, lo ha ucciso ((“è il più feroce assassino della malavita barese”, scrive l’autore) e, per prendersi meno anni di carcere (all'epoca esisteva il delitto d'onore), ha violentato sua nipote per poi accusare Introna dell'atto. Non è stato creduto grazie alle testimonianze di colleghi del medico, ma dal carcere Savino ha utilizzato il fazzoletto (che era un indumento che veniva indossato dai mafiosi come segno di riconoscimento) per fare in modo che si diffondesse la "sua verità". Contiene, infatti, "La canzone di Amelia la disgraziata", e aveva dato ordine ai suoi di impararla e cantarla ovunque.
Ma il piano è fallito perché colui che doveva portarlo fuori dal carcere è stato perquisito e il pizzino sequestrato.